scenari
Dispersione
Incrementalismo
Mobilitazione individualistica
Industrializzazione leggera
Paesaggi lontani






Uno scenario è cosa differente da una previsione; fossimo in grado di fare attendibili previsioni molti dei nostri problemi sarebbero di più facile soluzione. Neppure uno scenario è la illustrazione di una situazione desiderata o paventata; fossimo in grado di realizzare i nostri desideri o di evitare ciò che temiamo avremmo ben pochi problemi.
Uno scenario è una riflessione su alcuni andamenti possibili e forse anche probabili di alcuni fenomeni e sulle loro conseguenze probabili. Una riflessione nella quale la possibilità si incontra con la probabilità e che ha lo scopo di indicare la direzione nella quale concentrare, senza la garanzia della certezza, i nostri sforzi.
Essenziale nella costruzione di scenari è riferirsi a tendenze in atto, che hanno mostrato una certa forza e persistenza, che non si sono dimostrate effimere e che, al contempo, sono apparse come problematiche; tendenze con le quali, detto in altri termini, occorre fare i conti, ma nei confronti delle quali, sia per quanto riguarda il giudizio sulle loro conseguenze, sia per quanto riguarda i mezzi per sostenerle o contrastarle, le opinioni non sono concordi. Nell’area salentina esse riguardano forse e principalmente le tendenze alla dispersione degli insediamenti, delle attività, delle iniziative, dei gruppi sociali, delle politiche e degli interventi; le tendenze all’industrializzazione ed alla embrionale formazione di alcuni distretti produttivi; le tendenze infine ad uscire, specie per quanto riguarda l’edificazione residenziale e turistica, dai limiti imposti dalle leggi e dalle norme urbanistiche con comportamenti che possono, con qualche generosità, essere classificati come “abusivi”.








Concentrazione - Dispersione
Nelle tre figure che seguono sono rappresentati due scenari dell’assetto territoriale della penisola salentina. Nel primo possiamo immaginare che i futuri sviluppi insediativi si collochino a ridosso dei centri esistenti rafforzandoli e dando luogo ad una città multipolare. Nel secondo, che si rappresenta nella seconda e nella terza figura, che gli stessi sviluppi approfittino della rete infrastrutturale e si distendano lungo i suoi diversi archi dando loro uno spessore di volta in volta funzionalmente differente. Alla rete degli insediamenti corrisponde, come in un negativo, quella delle connessioni ambientali.



1- Nuclei
2- Lo spessore delle reti
3- Reti e nuclei










Dispersione
In queste due figure sono rappresentati due scenari della dispersione. Le due superstrade longitudinali ritagliano, nel territorio salentino, due figure.
Il primo scenario presuppone che i futuri sviluppi siano riferibili soprattutto ai centri interni ed ai loro processi di progressiva industrializzazione. La dispersione aumenta, in questo caso, all’interno delle due strade longitudinali ove già si trova il maggior numero delle aree industriali di recente formazione lasciando canali liberi per le connessioni ambientali lungo la rete stradale ed assumendo lo “spessore” della strada come vero e proprio corridoio ecologico.
Nel secondo caso gli sviluppi sono imputabili soprattutto ai centri costieri ed alla crescita delle attività turistiche e di quelle a queste legate. La dispersione, in modi e quantità evidentemente molto diversi da quelli precedenti, investe la fascia situata tra le grandi strade di accesso ed il mare.




1- Dispersione interna
2- Dispersione esterna


Questi due scenari inducono a riflettere sui diversi caratteri che può assumere la dispersione, alla sua possibile integrazione con le reti infrastrutturali, con il sistema ambientale e con il paesaggio. Se, infatti, si coltivano ipotesi di costruzione di una naturalità diffusa, di un bilancio ecologico ed energetico corretto, si può essere indotti, ed alcune ricerche cominciano a metterlo in evidenza, a non considerare la dispersione contraddittoria alla salvaguardia ambientale e paesistica.

Dispersione

I termini concentrazione e dispersione alludono a questioni in grado di costruire numerosi programmi. A partire dagli anni ‘90 a questi temi ci si è rivolti nel nostro paese da punti di vista differenti: da prospettive neo-fenomenologiche che lambiscono i temi delle pratiche quotidiane d’uso e produzione del territorio; da prospettive neo-marxiane che ricercano le ragioni della dispersione nei processi di accumulazione e redistribuzione della ricchezza; da prospettive elementariste, tese a costruire un’interpretazione sia della concentrazione, sia della dispersione a partire dall’osservazione minuta dei materiali urbani, delle loro associazioni e disposizioni; da prospettive ambientaliste tese a mettere in evidenza le possibili incoerenze tra un uso indiscriminato del suolo ed il funzionamento di un sistema ecologico; da prospettive paesistiche, tese a mettere in luce le modifiche di un paesaggio consolidato che ha assunto spesso valore non solo nell’immaginario collettivo, ma anche nel mercato dei beni e servizi turistici o, ancora, da prospettive più tradizionali di analisi dell’uso e del consumo di suolo permeate da un’ottica del rimedio e dello spreco.

E’ l’affollarsi di differenti punti di vista che richiede di precisare il modo in cui il Piano territoriale della provincia di Lecce potrebbe affrontare questi temi entro un ragionamento di ampio respiro, riconoscendo innanzitutto come nelle città e nei territori del nostro paese e della maggior parte dei paesi europei, con le ovvie differenze e con gli inevitabili anticipi e ritardi nelle diverse regioni, si è prodotto negli ultimi due decenni un mutamento importante che segna forse una rottura epocale. Il mutamento sembra segnare la definitiva uscita dalla città del XIX° secolo ed a maggior ragione dalla città di ancien régime, dai loro modi di organizzare l’insediamento dei differenti gruppi sociali e delle differenti attività, di provvederli di adeguate attrezzature ed infrastrutture, di pensare e rappresentarne il progetto e le sue principali “figure”. Un movimento iniziato in Italia tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio del decennio successivo ed ora manifestamente visibile e che può essere osservato studiando le nuove forme dell’insediamento, le nuove pratiche sociali, le nuove forme organizzative di alcune attività produttive, come, più in generale, le forme della cultura contemporanea.

Chi osservi l’enorme dispersione che connota oggi vastissime aree del nostro paese, chi ne osservi le diverse forme e tenti di ricostruirne in modo dettagliato la storia scopre l’importanza dell’ “incrementalismo”, da un lato e della “mobilitazione individualistica” dall’altro. Occorre insistere su questi due aspetti della recente storia del nostro paese: entrambi meriterebbero qualche attenzione per la rilevanza che verosimilmente hanno rivestito nella costruzione di alcuni connotati profondi di ciò che in anni non lontani veniva chiamato il “modello di sviluppo” dell’economia e della società italiana. Entrambi ci mostrano come la dispersione che connota in modo evidente vaste parti del territorio nazionale possa essere interpretata principalmente in termini di risposte individuali (ma informate ad una solida “razionalità minimale”) alla politica incrementalista.
Con il termine “incrementalismo” ci si deve riferire alla tendenza di lungo periodo a variare la dotazione di capitale fisso sociale per piccole dosi che il più delle volte assumono la forma di piccole correzioni o di piccoli interventi destinati ad aumentare “quanto basta” efficienza e capacità. Rete stradale, ferroviaria, della distribuzione dell’energia e rete telefonica, se si accettuano alcuni pochi casi, peraltro fatti immediatamente rientrare entro la politica incrementalista, sono state estese e modernizzate lungo questo percorso che ha enfatizzato l’importanza del capitale fisso esistente e della sua eventuale capacità inutilizzata rispetto ad un capitale fisso di nuova formazione nel quale si rappresentassero nuovi modi di vita, nuovi orizzonti produttivi, nuove tecniche di costruzione e gestione della città e del territorio.









Incrementalismo 1
In questa figura è illustrata la tendenza in corso per quanto riguarda il miglioramento, l’ammodernamento e l’innalzamento tecnologico della rete viabilistica del Salento: circonvallazioni, rettifiche di alcuni tracciati, allargamenti di alcuni tratti delle sedi stradali, completamenti di opere iniziate in periodi precedenti.
Il carattere “incrementalista” dell’investimento in infrastrutture emerge in modo evidente: non grandi opere, ma una serie di anelli attorno alla maggior parte dei centri urbani, alcuni “pendoli” destinati a meglio collegare la costa con l’interno ed il completamento della figura del “rombo” delle due strade principali. Lo scenario cui queste tendenze invitano a riflettere è la costruzione di un territorio più efficiente tramite una politica di piccole opere: un grande progetto di piccole opere che non si pone l’obiettivo di modificare in modo radicale pesi e gerarchie dei vari luoghi, quanto piuttosto di innalzare di un gradino ogni parte del territorio. Il limite di questo scenario è che potrebbe trovarsi in contraddizione con altre tendenze e politiche, ad esempio con la tendenza ad uno “sviluppo squilibrato” che privilegi alcuni luoghi ove concentrare attività innovative e risorse.


1 - Opere e ammodernamenti in previsione o in corso di costruzione





incrementalismo 2
La figura illustra la rete ferroviaria del Salento.
Nei programmi della Provincia si dà giustamente molta importanza all’ammodernamento della rete ferroviaria attraverso limitati interventi di costruzione di nuove linee e interventi più diffusi sul materiale rotabile e per la sicurezza dei tratti esistenti. La rete delle linee ferroviarie salentine dà la possibilità di pensare al servizio di trasporto pubblico in modo innovativo: uno scenario è certamente quello più tradizionale di linee ferroviarie che collegano tra loro i luoghi della residenza, dispersi in tutta la provincia e quelli altrettanto dispersi del lavoro e che collega le maggiori od alcune aree industriali alla rete ferroviaria nazionale.
Un altro scenario però è quello di una rete ferroviaria che collega tra loro i principali “luoghi del pubblico”: il campus universitario leccese, le scuole, gli ospedali, i luoghi dello sport, centri commerciali, centri amministrativi, luoghi del loisir.


1- La rete ferroviaria


Incrementalismo

Con il termine “incrementalismo” ci si deve riferire alla tendenza di lungo periodo a variare la dotazione di capitale fisso sociale per piccole dosi che il più delle volte assumono la forma di piccole correzioni o di piccoli interventi destinati ad aumentare “quanto basta” efficienza e capacità. Rete stradale, ferroviaria, della distribuzione dell’energia e rete telefonica, se si accettuano alcuni pochi casi, peraltro fatti immediatamente rientrare entro la politica incrementalista, sono state estese e modernizzate lungo questo percorso che ha enfatizzato l’importanza del capitale fisso esistente e della sua eventuale capacità inutilizzata rispetto ad un capitale fisso di nuova formazione nel quale si rappresentassero nuovi modi di vita, nuovi orizzonti produttivi, nuove tecniche di costruzione e gestione della città e del territorio.

























Mobilitazione individualistica

Con i termini di “mobilitazione individualistica” ci si riferisce alla tendenza di lungo periodo delle politiche del nostro paese a sospingere i differenti soggetti, individui, famiglie ed imprese a trovare “da sé” una soluzione particolare e specifica. Famiglie ed imprese hanno risolto “da sé” molti problemi, cercando entro e fuori dalle leggi, in modi legali ed abusivi, entro nuovi modi e stili di vita, nuovi modi e tecniche della produzione, nuove relazioni industriali e sociali e nuovi rapporti con lo Stato ed il sistema politico, una possibilità di partecipare ai benefici che il sistema poteva distribuire. Ciò le ha spinte a costruire le proprie abitazioni, le proprie officine, i propri negozi e le proprie attrezzature laddove un capitale fisso embrionale e non ancora saturo potesse essere rinvenuto; utilizzando, canali e rogge, gore e i torrenti come fognature; i greti dei fiumi come cave, scegliendo le coste od i versanti solatii e stabili, inseguendo una propria idea, spesso “dialettale”, dell’abitare, della casa o dell’officina e del suo adattarsi nel tempo alle nuove esigenze e configurazioni della famiglia o dell’impresa, mutuando stereotipi proposti da una subcultura progettuale e costruttiva. Un aspetto della cultura del paese che urbanistica ed architettura colte non hanno saputo, in generale, canalizzare verso esiti più fertili e convincenti per gli stessi protagonisti.
In questo modo la costruzione della città e del territorio, di uno spazio per abitare e produrre, ha impegnato quote elevatissime delle risorse nazionali, quote elevatissime dei risparmi delle famiglie e delle imprese ed ha portato ad un esito connotato da una straordinaria inefficienza. Misurare quanto questo si rifletta in dispendio di energie individuali ed in minor produttività del sistema economico complessivo non sarà forse mai possibile. Ma i rilievi e le descrizioni meticolose di casi specifici consentono di sospettare che tutto ciò, facendo parte della nostra esperienza collettiva, meriti un’attenzione non improntata a facili moralismi, quanto alla costruzione di ipotesi di crescita e sviluppo del territorio che possano essere condivise.








Industrializzazione leggera
In queste tre figure si delinea una struttura produttiva dell’area salentina simile a quella di altre regioni della “terza Italia”. Essa è costituita da piccole imprese, prevalentemente di origine locale, che danno luogo al formarsi di alcune aree di specializzazione che potrebbero divenire futuri ed importanti distretti industriali. Ma la situazione del Salento è tuttora connotata da una grande ambiguità. Queste tendenze consentono infatti di immaginare uno scenario di progressiva industrializzazione e di valutare pregi e limiti di sue declinazioni alternative.
Una industrializzazione diffusa, radicata nei “saperi contestuali” locali, che si appoggia a reti infrastrutturali altrettanto diffuse, oppure una industrializzazione più fortemente strutturata e concentrata in riconoscibili “poli” di sviluppo che non necessariamente debbono ripetere l’esperienza passata delle politiche meridionaliste: tra questi estremi si colloca un progetto di sviluppo del Salento.




1- Distribuzione territoriale degli artigiani
2- Sistemi produttivi locali
3- Specializzazioni produttive

Industrializzazione leggera

Entrambi questi aspetti, incrementalismo e mobilitazione individualistica, difficilmente eliminabili, come mostra anche un esame disincantato delle politiche e dei comportamenti entro la provincia di Lecce, dalla tradizione del paese, possono però divenire punti di partenza di una più interessante strategia di sviluppo e di progettazione del territorio. Scrive ad esempio Giacomo Beccattini, uno dei più acuti studiosi dei sistemi locali italiani, riprendendo temi discussi con Augusto Graziani all’inizio degli anni ‘90 (Distretti industriali e made in Italy- L’industrializzazione leggera del Mezzogiorno): “....molte parti d’Italia, fra cui gran parte del Mezzogiorno, sono fatte di embrioni e di residui di sistemi locali, più che di sistemi locali veri e propri. Ora, la sola strategia che io riesco a concepire per un’Italia del genere, è una strategia che tenga conto e sfrutti appropriatamente questa “scalatura” di condizioni culturali, anche all’interno del Mezzogiorno”, una strategia in particolare, che porti ad “aiutare la gente ad aiutarsi da sè” o, detto in altri termini, che, partendo dai numerosi nuclei di industrializzazione esistenti entro il Salento ed attraverso interventi che ne incrementino gradualmente, anche se rapidamente, l’efficienza e la produttività, consenta l’espansione di un’industrializzazione leggera. “Ciò che occorre, dunque, è un quadro generale e realistico delle precondizioni dello sviluppo nelle diverse zone e una chiara strategia di intervento...mirata al promuovimento di una successione di micro-decolli industriali”. “Niente ha più successo del successo, come dice Albert O. Hirshmann, il teorico dello sviluppo non equilibrato. Si tratta, ripeto, di concentrare gli sforzi in certe aree dove già si scorgono i segni di uno sviluppo autopropulsivo, per sollecitarvi la crescita di quei sistemi di nuove piccole imprese complete”. Analizzando il grado di realismo di una simile strategia, Stefano Munarin e Chiara Tosi mostrano come alle ipotesi classiche che interpretavano il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno in termini di dipendenza dall’esterno, sia per quanto riguarda i flussi di capitali, sia in ordine alle capacità imprenditoriali, si sono venute sostituendo, a partire dalla fine degli anni ‘70, analisi nelle quali la Puglia ed il Salento apparivano come regioni particolari. In questa regione erano in corso processi analoghi a quelli che avevano caratterizzato alcuni anni prima le aree della “terza Italia”; processi che in alcuni casi venivano ascritti ad una sorta di prolungamento dello sviluppo lungo la costa adriatica di uno specifico “modello adriatico di sviluppo”. In altre analisi invece lo sviluppo della Puglia e del Salento poteva essere riferito al recupero di una precedente tradizione artigiana depauperata e messa in crisi dalle emigrazioni del dopoguerra che avrebbe continuato a covare sotterraneamente conservando, per usare un’espressione di Beccattini, un “sapere contestuale” che ne sarebbe all’origine.
Queste ultime ipotesi insistono sulla necessità di politiche particolarmente attente allo sviluppo delle capacità imprenditoriali esistenti ed attive o mobilitabili entro un processo di industrializzazione leggera, piuttosto che entro processi di crescita e sviluppo di attività terziarie, poco probabili, o di attività turistiche più esposte alle pressioni di ambienti con lunghe e corpose esperienze nell’illegalità.








Paesaggi lontani
Le tre figure illustrano i siti di interesse comunitario, nazionale e regionale, i percorsi ciclo-turistici previsti dalla Provincia e la situazione di una zona costiera ove l’abusivismo edilizio è stato particolarmente intenso. Nel Salento i siti di maggior interesse paesistico, ambientale e storico sono diffusi; essi costruiscono un insieme di capisaldi che possono essere tra loro collegati, come si è visto nelle tavole precedenti da una maglia di corridoi ecologici, ma anche da veri e propri percorsi che possono essere frequentati dagli abitanti della regione come da un turismo sufficientemente evoluto da non accontentarsi solo dell’idea di essere vicino ad un mare che sovente non si riesce neppure a vedere. L’urbanizzazione abusiva delle coste ha dato luogo ad alcuni delle peggiori situazioni insediative e ad un modello di sviluppo autocontraddittorio.




- Siti di interesse















- Itinerari ciclo turistici















- Abusivismo turistico

Paesaggi lontani

Alla crescita e sviluppo dell’economia locale, alla sua industrializzazione in particolare ed alla crescita dei servizi e delle attività terziarie a ciò connesse, al carattere endogeno dello sviluppo, alla formazione di capacità imprenditoriali e di mercati locali è affidato il raggiungimento di obiettivi fondamentali non solo in termini economici. “Riconoscere i diritti di cittadinanza, riconoscere il valore della partecipazione nella costruzione del futuro del territorio” vuol dire anche dare a queste affermazioni una dimensione concreta in termini di occupazione, di redditi, di servizi offerti, di comfort e qualità ambientale. Ma il raggiungimento di questi obiettivi non può contrastare la salvaguardia e lo sviluppo del sistema ambientale, la conservazione e valorizzazione del patrimonio storico.
I temi ambientali non sono contraddittori allo sviluppo non solo nel senso banale ed elementare della conservazione e valorizzazione di “giacimenti” di risorse dotate di grande valore nei mercati turistici, ma anche e soprattutto nel senso più profondo della costruzione più lenta di una specifica cultura civile ed organizzazione sociale. La condizione peninsulare consente al Salento diversi primati: Capo d’Otranto è il punto più orientale d’Italia, il canale d’Otranto il punto più vicino alla Grecia, la provincia leccese è quella che ha il maggiore sviluppo di linea di costa (circa 500 km.).
Una terra a doppio spiovente che partecipa di due mari e viene a giovarsi dell’azione moderatrice del Basso Adriatico cui si aggiunge quella dello Ionio e del contrasto tra questi (e che nulla può interporre alle calde ondate di venti sciroccali provenienti da sud-est).

Dal punto di vista geomorfologico essa è formata da un sistema confuso di deboli rilievi dall’andamento parallelo che si incontrano e interrompono alla punta di Capo Leuca: le Serre Salentine, costituite da una triplice successione di basse colline (non superano mai i 200 m.) corrugano appena la piattaforma peninsulare e organizzano la disposizione degli insediamenti dell’entroterra ponendoli sui versanti o nelle valli interne tra una serra e l’altra.
Le Murge presentano una netta differenza litologica che risalta successivamente nelle coperture vegetali e nell’uso del suolo: creste e altipiani calcarei del cretacico e avvallamenti interposti fasciati e ricoperti dei terreni tufacei che si insinuano un po’ dovunque, provenienti dal disfacimento dei calcari più antichi in cui si sono accumulate spoglie di organismi marini.
La parte di attacco della penisola Salentina al resto della regione pugliese, il cosiddetto istmo messapico, chiamato anche Tavoliere di Lecce, individua l’affioramento di quel calcare tenero, facilmente lavorabile, materia prima del barocco leccese. Il territorio, appena irrigidito dall’uniformità del rilievo tabulare, presenta quindi una inaspettata ricchezza di forme, deboli dorsali con valli interne, forme del paesaggio carsico ipogee (inghiottitoi e doline) e epigee (specchie, carreggiate e rocce affioranti) che hanno fatto parlare Cesare Brandi, riferendosi a luoghi e manufatti rurali, di “orgia di pietre”.
Se le acque normalmente disegnano il paesaggio, in questo caso del loro scorrere sul terreno non si ha traccia, mancando quasi completamente forme erosive o incisioni dal momento che il regime idrografico scorre in profondità (acque di falda). In realtà il rapporto tra queste terre e l’acqua è stato nel passato fortemente conflittuale per mancanza o troppa abbondanza di acqua: i litorali erano dominati da vaste paludi e malariche, pressocchè deserti fino agli interventi di bonifica avviati negli anni ‘20, mentre nell’entroterra le descrizioni geografiche (Sestini, 1963) parlavano di “suolo carsico estremamente bibulo dove le strade non abbisognavano di ponti” e per queste ragioni si rendeva necessario portare fin lì le estreme ramificazioni dell’Acquedotto Pugliese.

Dire che questo paesaggio viene da lontano implica il ricorso a due diverse strategie cognitive: una tende legare queste terre estreme a relazioni trans-adriatiche di varia natura (botaniche, etniche, culturali) più che ai legami continentali, come se i rapporti di continuità e di affinità fossero più forti e significativi con le terre poste al di là del mare; l’altra ci spinge a guardare nel tempo lungo del passato. Nel primo caso, da alcune letture botaniche e di fitostoria del paesaggio vegetale della Puglia meridionale, emerge il carattere bio-geografico di questa terra salentina che, più delle altre regioni dell’Italia meridionale, presenta specie a distribuzione egeica, sub-balcanica ed orientale, molte delle quali poste al limite di distribuzione più occidentale.
Nell’altro caso, guardando a ritroso nel passato, leggendo alcune descrizioni della Terra d’Otranto dei botanici di fine ‘800 e nelle reinterpretazioni cartografiche più recenti, ci appare dinnanzi un paesaggio che non c’è, che stentiamo ad immaginare perchè nulla o poco nel presente ci sembra richiamarlo. Se oggi, nel Salento, la superficie boscata è la più bassa d’Italia, meno dell’1%, in passato le terre interne erano coperte da folti boschi mesofili, cioè boschi amanti di climi umidi dove l’acqua era talmente abbondante da consentire che si praticasse la pescagione (Mainardi, 1989). In realtà analizzando i dati pluviometrici si scopre che il Salento è una delle località più piovose della regione, con piovosità media annua superiore agli 850 mm. nel Canale d’Otranto e che, per la mancanza di uno strato vegetazionale continuo, l’acqua in parte si disperde nelle fratture del terreno calcareo e una grossa quota, data l’aridità e la sterilità dei suoli si dissolve nella evapotraspirazione. Il paesaggio vegetazionale che oggi vediamo in questi territori, dunque, è il risultato di una lunga serie di modificazioni, di regressione e progressione dei boschi e della vegetazione spontanea in relazione alla maggiore o minore diffusione dell’agricoltura, ai rapporti sociali ed economici della rendita fondiaria che hanno profondamente coinvolto l’immagine del territorio. Le attuali conformazioni del suolo non devono quindi essere date per scontate.

Ambiente e paesaggio costruiscono diversi scenari: scenari della paura e scenari del loisir. I primi sono connessi agli elementi di rischio cui oggi siamo molto più sensibili di un tempo: alla salinità ed all’inquinamento delle falde dovuto a emungimenti ed a scarichi eccessivi ed in molti casi abusivi, al rischio di inondazioni, ad esempio nel Salento; i secondi sono connessi ai giacimenti di risorse naturali ed antropiche e possono intersecare mutamenti anche rapidi degli stili di vita.
Entro questi estremi nei quali l’ambiente diventa oggetto di una politica dei lavori pubblici o strumento di una politica del turismo, si collocano però scenari assi più interessanti. L’Italia è il paese in Europa con il più elevato grado di biodiversità e resilienza e ciò nonostante la sua antica e diffusa antropizzazione. Il Salento, tra le regioni italiane, è dotato di una biodiversità del tutto particolare, come prima è stato richiamato. Il funzionamento e la conservazione del sistema ecologico salentino, che già di per sé è una risorsa, richiede uno specifico progetto che si fondi forse principalmente su un’idea di naturalità diffusa, non cioè sulla costituzione di grandi riserve o grandi parchi naturali, ma sulla cura meticolosa di un ambiente e di un’antropizzazione diffusa mutuamente compatibili. Molti degli schemi delle pagine precedenti forniscono alcune prime suggestioni a questo riguardo. Un piano, il progetto di un territorio, è sempre il risultato di riflessioni che investono numerosi strati e dimensioni. Ogni strato ed ogni dimensione può essere colta in specifiche forme progettuali e in specifici tipi di rappresentazione. La dimensione temporale, la costruzione cioè di una strategia che si distende nel tempo, la dimensione più tradizionale del dimensionamento, lo stabilire quantità edificabili in relazione ai movimenti demografici ed edilizi, la dimensione economica, la valutazione dei costi degli interventi previsti dal piano ed infine quella prescrittiva, che spazia dalla norma al consiglio, all’indirizzo, sono le dimensioni che dovranno essere affrontate nella costruzione del piano territoriale di coordinamento.

Un piano è sempre costruzione di una strategia che si dispiega in tempi e spazi differenti: in quelli dei diversi centri urbani come in quelli del territorio, nello spazio e nel tempo sociale, in quelli dell’economia, delle istituzioni, delle procedure e degli attori che per realizzare il piano si mobilitano. Una chiara strategia può consentire nel tempo la messa a punto di tattiche particolari che, entro quella stessa strategia, raccolgano le occasioni, la adattino al nuovo, la arricchiscano e la realizzino.